Pace in trincea

Hajar Naji 3B

Pace in trincea

Per comprendere a fondo un testo e farlo proprio non c’è niente di più efficace che riscriverlo. Lo ha fatto Hajar Naji di 3B. Scopriamo come ha deciso di raccontare e rielaborare l’episodio storico della pace in trincea del 1914 sul fronte occidentale della Prima guerra mondiale.

Sono il generale anglo-tedesco John Joseph Haber, ho 35 anni e sono al comando di una truppa inglese in trincea da sei mesi.

23 dicembre 1914: siamo a Ypres, a nord-ovest del Belgio e ho appena dato l’ordine dell’assalto alla baionetta. Non mi piace, non mi piace proprio il modo e il numero di soldati che stanno morendo ora, davanti ai miei occhi. Purtroppo devo sopportare, devo trattenermi alla vista dei poveri giovani che muoiono in questo modo, feriti da colpi secchi e rapidi di baionetta, devo imporre loro di farlo, per ordine degli ufficiali a me superiori.

Sapevo già che, seguendo la carriera militare, avrei finito per uccidere qualcuno, ma ho sempre detestato la propaganda che convince i giovani ad arruolarsi nell’esercito facendogli credere che togliere la vita a una persona che si definisce nemica sia una cosa straordinaria. Infatti sono convinto che prima o poi qualcuno riuscirà a cambiare questa cosa, a far capire che è sbagliato fare il lavaggio del cervello ai ragazzi, che con la propaganda finiranno solo a morire su un campo di battaglia, che andare in guerra non è una cosa bella.

Sono passate le nove, i soldati sono rientrati nella trincea con ormai degli stracci al posto dei vestiti.

In quel momento sento qualcuno aggirarsi nei dintorni. A malincuore preparo subito la mia baionetta per difendermi, ma appena mi giro rimango immobile per qualche secondo: lì a pochi passi da me c’era il mio gatto Gunter, l’unico che ho lasciato a casa. Ricordo di averlo affidato alla mia vicina, in modo che non morisse di fame. Era un’allucinazione. Mi scende una lacrima, ma torno nel mondo reale dopo che uno dei soldati mi richiama per fare l’appello.

24 dicembre 1914: è la vigilia di Natale. E pensare che tutti speravano di tornare a casa per Natale! Ormai è sera, sto tornando sul fronte, camminando sulle stesse impronte che ho lasciato per arrivare dagli ufficiali a fare rapporto della situazione a Ypres. Stranamente non sento colpi di fucile d’acciaio che trapassano i corpi di quei poveri giovani che gridano per il dolore. Mi dirigo verso il battaglione, alzo un po’ lo sguardo per scrutare oltre il nostro fossato: vedo dei cartelli spuntare dalla trincea tedesca, dopo essere riuscito a comprendere cosa ci fosse scritto mi fermo incredulo; leggo una, due, tre quattro volte; continuo a rileggere quella frase: “NON SPARATE, NOI NON SPARIAMO”. Avanzando lentamente, vedo che nella terra di nessuno ci sono piccoli gruppi di soldati con divise di due colori: verdognolo i tedeschi e bluastro gli inglesi; si stavano scambiando i doni appena ricevuti. Dopo averli visti fraternizzare sono crollato a terra. Mi strofino gli occhi e riguardo la scena. Finalmente. Finalmente quello che credevo fosse un sogno irrealizzabile si è avverato. Li vedevo cantare, i tedeschi in inglese e gli inglesi in tedesco; stavano cantando brani natalizi, stavano cantando anche buon compleanno a un soldato tedesco, compiva 23 anni, era ancora giovane.

Sentivo qualcosa scivolare lentamente sul mio viso: erano lacrime, lacrime di gioia.  Era da tanto che non piangevo. Smetto subito di piangere perché i soldati stavano dirigendosi da me, dopo avermi notato. Il generale tedesco mi porge un dono, ero felice del gesto, ma visto il contenuto rifiuto  perché non avevo mai bevuto; al contrario io gli porgo il caffè d’orzo che avevo, non era il massimo ma era ciò che avevamo. Dopo qualche chiacchiera mi dirigo verso i comandi, perché era l’ora del rapporto quotidiano tra generali.

Oltre che divertirmi durante la tregua ho cercato di nascondere l’accaduto in modo che gli ufficiali non potessero sapere cos’era successo, perché sapevo benissimo che ci sarebbero state ripercussioni gravi sui soldati ma soprattutto su di me.

25 dicembre 1914: è Natale e per fortuna stiamo festeggiando. Mentre sto bevendo un po’ del caffè avanzato il giorno prima, stranamente arriva il messaggero dalle retrovie che richiede la mia presenza. Mi dirigo verso di lui confuso, ma appena il nostro sguardo si incrocia rimango impietrito; per un momento ho sentito qualcosa trapassarmi il corpo, un brivido breve e freddo. Il messaggero è pallido, peggio dei soldati nelle trincee. Mi guarda con uno sguardo colpevole, come se fosse consapevole di aver fatto qualcosa che ha condannato tutti. Mi guarda negli occhi e ripetutamente con tono colpevole si scusa. Cominciano a scendergli lacrime che gli bagnano quelle guance chiare, capisco che quelle non sono normali lacrime, ma lacrime di paura; a questo punto mi rendo conto che è successo qualcosa di davvero grave. Il ragazzo comincia a tamponarsi il viso con le maniche della divisa per asciugarsi, si alza dal terreno e si toglie il cappello che gli copriva quei capelli bruni, si avvicina a me e, sussurrandomi all’orecchio con una voce tremolante, mi dice: “Gli ufficiali richiedono immediatamente la sua presenza, generale Haber”. Lo guardo confuso e poi gli chiedo il motivo della convocazione fuori orario. Il ragazzo mi nascondeva qualcosa, era troppo evidente. Dopo un po’ di silenzio si decide a confessare e tira fuori, con un sospiro, una decina di lettere. In quel momento avevo ancora in mano il bicchiere di caffè che poi mi cadde. Tra le lettere che aveva in mano il ragazzo ce n’era una macchiata di vino. In un istante mi ricordai che il giorno prima uno dei soldati, un po’ ubriaco, aveva versato del vino su una lettera che aveva appena scritto, in cui raccontava della festa fatta con i tedeschi. Vado nel panico perché ciò significava che le lettere erano già state censurate, quindi anche lette. Ora i miei superiori sapevano tutto. Mi ero scordato di nasconderle; neanche avevo previsto che il messaggero sarebbe arrivato così presto. Ma perché proprio oggi? Senza esitare prendo il mio cappotto e il cappello, mi vesto e comincio a correre verso le retrovie. La paura aveva già cominciato a prendere il sopravvento. Era la prima volta che dopo tanto tempo non sapevo cosa fare. Dopo pochi minuti mi ritrovo davanti un edificio in legno. Con il fiato sospeso busso alla porta con un tocco rapido, freddo e ripetitivo; sento un cigolio: la porta si sta aprendo. Entro con passi silenziosi e rapidi. E’ troppo evidente che sono ansioso. Faccio un respiro profondo e mi inchino ai superiori per rispetto. Davanti a me c’è un tavolo di abete dove sono seduti cinque generali e il primo ufficiale. Si notava benissimo che era furibondo, bastava guardarlo negli occhi per vedere ardere in loro un fuoco di odio.

Con un tono profondo rompe il silenzio e dice: “Si può sapere cos’è successo lì a Ypres? Solo perché lei è al comando di una truppa non significa che può fare certe pagliacciate. Siamo in guerra, non in un spettacolo teatrale, generale Haber! Ho sempre dubitato delle sue capacità  in ambito militare”. Stava pian piano alzando la voce. “E’ vero, sono un anglo-tedesco al comando di soldati inglesi che combattono contro i tedeschi; entrambi stanno rintanati tutto il giorno nelle trincee e stanno morendo in un modo disumano”. Rispondo io con tono formale e sicuro; riprendo fiato poi continuo mostrandomi irremovibile di fronte ad ogni tipo di punizione: “Una tregua a Natale non significa la sconfitta. Dopo così tanto tempo sono felici. Una pausa da questo inferno che sarà mai?” Fisso negli occhi il primo ufficiale. Lui mette giù il sigaro acceso sbattendo la mano sinistra sul tavolo, si alza violentemente facendo cadere la sedia e, alzando di nuovo lo sguardo su di me, si avvicina a passi rapidi. Senza accorgermene mi aveva preso per il collo sbattendomi sul muro: “Le sembra normale questo?! Quelli sono nemici da aggredire e uccidere. Non si devono risparmiare, non si devono rendere amici e non si deve di certo fraternizzare con loro!”

Non riuscivo a respirare; la sua mano venosa mi stava strangolando, mi stava uccidendo. Per liberarmi dalla sua stretta uso una manovra di autodifesa che avevo imparato dal mio vecchio insegnante di arti marziali: con le mie ultime forze colpisco l’ufficiale allo stomaco usando il tacco dello stivale destro. La sua stretta si allenta; a quel punto gli storto il braccio per liberarmi. Il primo ufficiale cade a terra, io comincio a tossire mentre tutti i generali si alzano scioccati; so benissimo di aver compiuto un atto grave, che probabilmente mi costerà l’intera carriera. Ma dovevo, non avevo altre opzioni, o morivo o vivevo.

Il primo ufficiale si riprende velocemente e subito, anche se poco stordito, fa partire un colpo della baionetta che mi colpisce all’addome. Nell’esatto momento in cui mi colpisce capisco che è l’unico momento per scappare. Mentre tutti erano dal primo ufficiale storditi e increduli, io mi dirigo verso il portone che per fortuna non era stato sigillato; comincio a correre nonostante perda sangue e sia zoppicante.

Piano piano sto diventando sempre più debole e sempre più lento. Arrivo alla trincea ma non trovo nessuno, allora mi dirigo verso la trincea tedesca e trovo un soldato tedesco. Gli chiedo senza mezzi termini dove si trovano tutti gli altri, allora lui con un lieve sorriso indica una zona al di là della terra di nessuno e poi afferma: “Sono tutti al campo di calcio”. Dopo essermi orientato ringrazio il soldato e comincio a correre per l’ennesima volta, lasciando dietro di me una scia di sangue. Lamia vista comincia ad offuscarsi, ma senza cedere continuo a dirigermi verso il campo. Sapevo che non sarei mai sopravvissuto vista l’emorragia che avevo. Cado a terra dopo aver perso l’equilibrio, ma sostenendomi con il braccio destro alzo il volto e faccio un ultimo sorriso, dopo aver visto che stavano festeggiando la vittoria dei tedeschi nella partita: tre a due per loro.

Si stavano divertendo invece di spararsi. È questo che mi rendeva felice. Chiudo gli occhi, faccio un respiro e lascio che il mio volto cada a terra.

Pace in trincea