Un gomitolo di idee
Alessia Mariani di 3A si mette nei panni di un gigante della letteratura italiana, Alessandro Manzoni, e ci offre un inedito punto di vista attraverso il quale ripercorrere le tappe fondamentali della sua biografia e della sua produzione letteraria.
“Ite, missa est”.
Il parroco ha congedato come sempre i suoi fedeli e io mi sono diretto insieme alla folla sul sagrato della chiesa di San Fedele, proprio dietro a casa mia, a Milano.
La mia amata Milano dove, ottant’anni fa, nel 1785 sono nato dalla mia giovane mamma Giulia Beccaria e dal mio “anziano” papà Pietro Manzoni. I miei genitori erano tanto diversi e, quando ero ancora piccolino, hanno deciso di prendere due strade differenti. Da quel giorno sono diventato una pallina da ping pong, rimbalzando da Milano con papà, a Parigi con la mamma.
L’infanzia l’ho trascorsa con papà insieme alle mie sette balie, accudito e coccolato fino a quando sono dovuto entrare in quel collegio gestito da Padri Somaschi, l’ho detestato. Anche se cresciuto in ambienti religiosi, ho da subito coltivato le idee illuministe di mia mamma e mio nonno Cesare Beccaria. Ammiravo i Francesi che, al di là delle Alpi, combattevano per gli ideali di unità, fratellanza e libertà.
Da giovane ero un ribelle, chiamavo la mia scuola “sozzo ovile”. Questo perché stava sorgendo una nuova repubblica: la Repubblica francese. Ciò mi ha influenzato molto: ho vissuto quella libertà, ho seguito una pista che odorava di uguaglianza e ho sognato un popolo unito come il loro. Con il tempo ho ritrovato questi ideali nel Vangelo che riconosce gli uomini tutti uguali davanti e per Dio. Da ragazzo tuttavia non ho mai dato importanza alla religione e questo è cambiato solo quando qualcuno mi ha scosso.
Durante un soggiorno sul lago di Como la mamma mi ha presentato una donna: era alta, il mento appuntito, gli occhi scuri scavati nel volto, lo sguardo attento e profondo da subito rivolto verso il mio. Il viso libero dai lunghi riccioli raccolti in un’acconciatura elegante, il naso a punta, le labbra sottili che accennavano un sorriso, la fronte appena solcata da rughe di espressione: era Enrichetta Blondel.
Con lei ho condiviso le fasi più importanti della mia vita; ci siamo sposati e abbiamo formato una famiglia. Enrichetta non ha riempito solo le mie giornate ma anche il mio cuore. Mi ha permesso di ritrovare la fede nella religione cattolica e mi ha nutrito della giusta ispirazione per scrivere molte opere.
La mia vita aveva finalmente ricevuto la giusta carica per ripartire ed Enrichetta ne era il motore. Ma come tutte le belle storie non è durata all’infinito. La nostra si è interrotta nel 1833 quando lei mi ha lasciato solo a crogiolarmi nel mio dolore.
Purtroppo non è stata l’unica mia grande perdita. Pochi mesi dopo è mancata anche mia figlia Giulia. Con la mente sono tornato all’età di vent’ anni quando ho assistito al viso spento di mia mamma addolorato per la perdita del compagno Carlo Imbonati.
Da quel pomeriggio del mio soggiorno a Parigi io e mia mamma siamo diventati inseparabili. Era come se due calamite che fino ad allora si erano respinte, improvvisamente avessero cominciato ad avvicinarsi fino ad incollarsi. Percepivo un forte rispetto per il compagno di mia mamma tanto da dedicargli “In morte di Carlo Imbonati”.
Una mattina del 1810 ero pronto a tornare in Italia, ma la mia mentalità era cambiata. Nuove idee mi ronzavano per la testa: quella voglia di evadere dalla realtà che ti spinge a cercare i valori assoluti, la perfezione. La sensazione che il buio dell’ignoranza potesse essere vinto dalla ragione, ma anche una nuova fiducia nel sentimento e nella passione. La percezione della grande qualità che ci rende umani: l’umanità.
Al mio rientro ho iniziato a frequentare salotti mondani, teatri, circoli intellettuali e case da gioco. In quel periodo una scintilla è scoppiata tra l’inchiostro e la mia mano, la penna ha continuato a vibrarmi sul palmo fino a quando non l’ho appoggiata su un foglio. Ho iniziato a riempirlo di parole che piano piano componevano poesie, tragedie, romanzi, saggi di argomenti storici e letterari e odi civili. Di questi ultimi ne ho scritti due per sottolineare il male nella storia e il destino dei popoli oppressi.
Erano anni di forte confusione, instabilità e idee liberali. Correva l’anno 1821, alle spalle la strage dei moti d’insurrezione del 1820 e in arrivo la nascita di nuove ribellioni culminate dalla successiva morte di Napoleone, imperatore di Francia.
A marzo ho scritto un’ode dedicata ai moti carbonari, un appello all’unità d’Italia. Tre mesi dopo ho composto quella in onore di Napoleone. Ma questo era solo l’inizio: nel 1827 ho pubblicato il mio romanzo “Fermo e Lucia”.
Durante la stesura di questo libro mi è sembrato di trasferire tutto il sentimento, dolore, passione e fede cattolica su miseri fogli di carta. Mi sono da sempre preoccupato di raccontare solo verità, “proporsi l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interesse per mezzo”.
Non ho mai assistito al sabotaggio di un matrimonio, la fuga dalla galera, rapimenti e diffusioni di epidemie ed è per questo che il mio romanzo racconta una storia verosimile, i cui fatti si sarebbero benissimo potuti verificare nel Seicento. Ma questo non è bastato: la mia prima versione non poteva risultare comprensibile a tutti, perché scritta in una lingua troppo vicina al latino, al francese e al dialetto milanese. Ho deciso così di “risciacquarla in Arno” durante un soggiorno a Firenze che ho dedicato a un’ accurata revisione del romanzo, ribattezzato “I promessi sposi”.
Sono stato spinto dalla voglia che la mia opera fosse compresa da tutti. Ho sempre sperato che la storia di quei due umili giovani innamorati servisse ad unificare l’Italia. Ho pubblicato la seconda versione più “universale” nel 1840.
In Renzo e Lucia vedo me ed Enrichetta, quell’amore che ti rende folle, quel sentimento di viva affezione, il voler sempre il bene dell’altro e ricercare la sua compagnia. Non è stato lo stesso con Teresa Borri Stampa, la mia seconda moglie che pur ho molto amato. Ho avuto la costante sensazione che nessuno avrebbe mai potuto farmi ricordare com’è stata la vita con Enrichetta.
Rimasi vedovo la seconda volta nel 1861. Proprio un anno prima però sono riuscito ad ottenere un alto ruolo in politica, sono diventato senatore del Regno d’Italia. Successivamente sono stato nominato presidente di commissione per l’unificazione della lingua italiana.
In quel momento ho sentito rafforzarsi in me l’idea di interpretare con la fede il male inspiegabile del mondo, perché è la fede che destina l’uomo a una condizione di bene eterno agendo per mezzo della Provvidenza.
Non ho potuto chiedere modo migliore per concludere la mia particolare e attiva vita.
Una voce soave simile a quella di mia moglie Enrichetta mi riporta sul sagrato della chiesa di San Fedele.
Mi volto nella speranza di trovarla alle mie spalle. Nessuno.
La folla è sparita.
Forse mi sono calato troppo a fondo nel mio pozzo di ricordi.
Per oggi basta così.